Europa: un confine, due misure
Rafael Spregelburd racconta il Vecchio Continente partendo dalla sua fine, dalle sue fini. Dal suo spegnersi un giorno alla volta, nell’immobilismo distaccato che rievoca alla mente l’immaginario hotel dei giorni immobili cantato da VecchioniCome ricorda lo storico Lucien Febvre, l’Europa ha rappresentato e rappresenta non solo un continente, ma anche un modo di guardare al mondo. Il testo di Spregelburd fotografa spietatamente il progressivo, lento ma apparentemente inesorabile spegnersi di quello sguardo, da un punto di vista intellettuale, sociale, storico.
In un sapiente equilibrio di parole, musica e danza i giovani attori si alternano con sicurezza su un palco dalla scenografia essenziale ma sempre intonata all’azione. E così danno vita a scambi brillanti, spesso animati da una tagliente ironia: “c’è un odore di salsedine, ma il mare non si vede” canta Vecchioni di un albergo di fantasia, l’hotel dei giorni immobili. Visitato e abitato da accademici, persino da sovrani, ma incapace di farsi casa, di manifestare uno slancio che lo proietti al futuro, anche passando per il mare aperto.
“Una notte senza nuvole, si presentò un pensiero
e si cominciò a distinguere buio falso e buio vero”
Nel 1974 i governi di Spagna e Portogallo decisero, reciprocamente diffidenti, di tracciare e misurare il proprio confine dal vicino, in modo indipendente. A valle di un’operazione certo non semplice e di un considerevole impegno economico per entrambe le parti, le due misure differirono di centinaia di chilometri. Persino tracciare un confine, persino misurare, riflette il regista per bocca degli attori, sembra reggersi, oltre che sulla tecnica, su un qualche grado di fiducia.
“Ma una notte con le nuvole, lì si smarrì un ricordo
e si continuò a confondere l’apparenza di uno sguardo”.
Ma quel pensiero, quel dubbio, si perde: annegato tra i dialoghi forse troppo cerebrali di due intellettuali che discutono di arte vantando o quasi dando per scontata la pretesa di poterne tracciarne i contorni, offuscato dagli appassionati ma goffi tentativi di una compagnia d’attori male assortita di mettere in scena uno spettacolo.
A mano a mano che si svelano i dettagli del dramma, par di capire di che si tratta: il testo è scritto, ben collaudato, rappresentato da molto tempo. Fino a qualche tempo fa, con successo. Ora però, sembra non funzionare più. Gli attori non sono brillanti, lo ammettono essi stessi. Cercano, per recuperare, di dare un tocco di contemporaneità: in modo forse superficiale, certo inefficace. E amaramente concludono, sconfitti: è vero, sono cambiati gli interpreti. Ma è cambiato anche il pubblico.
Damiano Verda