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Il Gabbiano

Dal 26 febbraio al 3 marzo 2019
Gabbiano

Scriveva il poeta Vincenzo Cardarelli “Non so dove i gabbiani abbiano il nido, / ove trovino pace. / Io son come loro, / in perpetuo volo.”. E così anche “Il gabbiano”, che offre il titolo al testo di Cechov datato 1895.

La rilettura in chiave moderna e coinvolgente del regista Marco Sciaccaluga, portata in scena dalla compagnia del Teatro Stabile di Genova (cara a Cechov al punto che l’autore la indica, proprio attraverso un dialogo de “Il gabbiano”, come “la città più bella del mondo”), basato sul testo originale e non sottoposto alla censura zarista, avvicina forse ancor più la rappresentazione a essere metafora del volo di gabbiano. A esprimere cioè il sentimento di chi non sa darsi pace e si ritrova, anche suo malgrado, sempre lontano dal terreno e in cerca di una meta.

Si agitano come gabbiani, ciascuno a suo modo, in un volo disordinato ma vivo, appassionante, i giovani protagonisti Nina e Konstantin. Entrambi sono animati tanto da uno spirito di ribellione verso la propria famiglia quanto da uno slancio artistico carico d’ingenuità, ma anche di freschezza.

Konstantin si immagina drammaturgo, Nina attrice. I due si amano e si ritrovano ostacolati, anche in questo, dalla famiglia e dalle persone a loro più vicine. Lo spettacolo si apre con Konstantin pronto a mettere in scena il suo primo lavoro, che vede Nina come protagonista, su un palco improvvisato che ha come sfondo il lago in un esempio di metateatro o “teatro nel teatro”.

In particolare in questo caso, l’espediente pare avere innanzitutto la funzione di rendere plastica la distinzione tra chi si mette in gioco (Kostantin e Nina) e chi giudica (familiari, amici): citando De André, “chi dà buoni consigli non potendo più dare il cattivo esempio”.

Nina e Kostantin sono forse nel giusto, almeno nelle intenzioni, ma fragili ed esposti, forse anche un po’ immaturi. Si ha buon gioco a trattare con sufficienza o, al più, con condiscendenza, i loro slanci. Konstantin, in particolare, dichiaratamente alla ricerca di nuove forme di espressione e di libertà e forse per questo ancor più inviso a chi alla novità, credendosi saggio e arrendendosi al cinismo, ha rinunciato.

E così, pur inframezzato da passaggi in cui il tono da amaro si fa divertito e divertente, scena dopo scena, si intuisce l’approssimarsi di un tragico epilogo. Ma neppure questo basta a lacerare il velo d’apparenza, riuscendo appena a scalfire la superficie di un ipocrita e assordante, profondo languore.

Damiano Verda