John Gabriel Borkman
Dal 6 al 17 novembre 2018Al Teatro della Corte va in scena, in prima nazionale, la reinterpretazione del testo di Henrik Ibsen “John Gabriel Borkman” da parte del regista Mario Sciaccaluga. È la storia di un uomo emerso con le sole sue forze da una misera condizione di partenza fino ai vertici di un’importante banca e poi ripiombato nell’abisso, condannato per i suoi affari poco chiari: un dramma classico e al contempo molto attuale.
Borkman è un uomo orgoglioso e capace, che ha pagato i propri errori con lunghi anni di carcere, forse al di là delle sue responsabilità personali, scontando anche le colpe di altri. Ora è libero e medita di riprendersi ciò che sentiva e sente legittimamente suo, per il suo talento: il potere. Non sa però risolversi, nei fatti, neppure a uscire di casa, preda come è di atroci dubbi e della paura del giudizio degli altri.
Non trova consolazione negli affetti familiari: la moglie non gli perdona la sua caduta e, ancor più, la passione mai davvero sopita per la sorella gemella, primo amore di John Gabriel. Le due si contendono l’affetto del figlio Erhart Borkman, cresciuto e allevato nel disprezzo per suo padre.
Spira un’aria fredda: da ogni scena, da ogni dialogo. E non si tratta soltanto del rigido clima della Norvegia, patria di Ibsen, magistralmente reso da una scenografia dinamica ed elegante: il gelo è più profondo e più doloroso. Sfuma in una sorta di rabbiosa eppure rassegnata indifferenza o addirittura nell’apatia, per un passato che, in coscienza, ognuno sa essere, ormai, perduto.
Si potrebbe dire che, in una rilettura modernissima, viene rappresentato, attraverso una vicenda personale e intima, un rimpianto che da individuale si fa anche universale e tracima in una sfiducia verso il futuro che, nella sua universalità, da personale può divenire anche sociale.
L’errore autentico di Borkman, forse, non sta tanto nell’egoismo inteso in senso letterale. Brama la gloria e il potere, è vero, ma perché possano goderne anche altri, molti altri: perché possano avere le opportunità che egli stesso, figlio di minatore, ha saputo costruirsi. La sua sfrenata corsa, che forse è stata la corsa non solo di un individuo ma anche di un modo di vedere il mondo, ha quindi anche una meta più ambiziosa e perfino nobile: un benessere non soltanto personale, ma collettivo.
A questo ideale però, John Gabriel sacrifica tutto, anche ciò che ha di più caro, anche il suo autentico amore. «Perché dovevo», ripete. Non ritiene di aver avuto scelta, nel rinunciare persino a se stesso e alla propria felicità, in nome di un ideale di ricchezza e di potere personale, così come di generale progresso e benessere.
Ma è proprio dal ricordo di questa rivendicata decisione che, ancora, continua a spirare il vento più tagliente e glaciale: folate che sferzano, incessantemente, il protagonista così come tutti coloro che provano a stargli vicino. È dalla freddezza che accompagna la rinuncia all’umanità più piena e autentica che traggono linfa il rimpianto e la paura: forse questo spettacolo può ricordarci, ancora una volta, come coraggio e speranza possano nutrirsi di una scelta di segno contrario.
Damiano Verda